Il racconto di Natale dal Caritas Baby Hospital – parte 3 di 4
Avvicinandoci alla fine dell’anno, abbiamo pensato di pubblicare in prossimità di ogni domenica dell’Avvento una parte del racconto di Natale che arriva dal Caritas Baby Hospital. Nelle parole di questo primo appuntamento e dei prossimi, troviamo storie vere delle mamme, delle mamme e dei bambini che vivono in Palestina. Un racconto di amore, sofferenza, calore familiare, speranza. Ti invitiamo a goderti la lettura e a seguire i prossimi episodi!
Tre generazioni, un ospedale – Il racconto di Natale dal Caritas Baby Hospital di Betlemme
Intagliare presepi a Betlemme
Suhair e la madre Nadia hanno a tutt’oggi un rapporto molto stretto e intimo. Appena può, Suhair, accompagnata dai figli, va a casa dei genitori.
La loro abitazione è alquanto modesta rispetto al moderno appartamento in cui oggi vive la trentenne con il marito Johnny, ma l’ambiente è pieno di calore e di vita.
Dai genitori della giovane c’è sempre qualcosa che attira l’attenzione: un andirivieni di bambini, le galline, la verdura dell’orto e il profumo di legno che fuoriesce dal garage, dove il padre di Suhair intaglia statuine per il presepe, occupazione tipica delle famiglie cristiane di Betlemme.
Fare l’intagliatore di legno di olivo nel luogo in cui è nato Gesù suona, in qualche modo, idilliaco. «Ma dar da mangiare a una famiglia numerosa con questo lavoro significa sottoporsi a rinunce e privazioni. Il denaro era veramente pochissimo», racconta Nadia, la madre di Suhair, mentre entrambe siedono nel salotto davanti a una tazza di tè. «Non mi crederà se le dico quanto ero felice, all’epoca, di poter far curare gratuitamente tutti e sei i nostri figli al Caritas Baby Hospital. Soprattutto Ala doveva spesso essere ricoverato per molte settimane; aveva continuamente problemi di salute, legati al fatto di essere affetto dalla sindrome di Down.» Questo non sarebbe stato possibile, se Nadia avesse dovuto pagare di tasca propria.
Dopo una breve esitazione, la 55-enne aggiunge: «Oltre all’aspetto finanziario, c’era qualcosa che per me allora era estremamente importante: il personale dell’ospedale aveva tutte le attenzioni per me, infondendomi coraggio, e non segnandomi col dito. Nessuno ha mai pronunciato una parola offensiva nei confronti di Ala, il nostro figlio disabile.» Dai parenti, al contrario, si sentiva sempre dire che il ragazzo era una «vergogna», da nascondere e rinchiudere il più possibile.
- La settimana prossima potrai leggere la quarta e ultima parte del racconto di Natale! Ti aspettiamo!
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