Intervista a Suor Donatella Lessio – Da Bassano al Caritas Baby Hospital di Betlemme, “sognando” il Sud America
L’intervista a Suor Donatella Lessio è a cura del giornalista Luigi Marcadella per Bassano.it. Ciò che segue è la riproduzione integrale dell’articolo, (qui l’originale).
Da Bassano al Caritas Baby Hospital di Betlemme, “sognando” il Sud America
Non è cosa particolarmente nota ma Bassano ha una propria geopolitica. Più che di una politica istituzionale, si tratta della politica “estera” dei tanti bassanesi che nel volontariato, nell’industria e nelle professioni hanno intessuto negli anni relazioni di primissimo piano in giro per il mondo. Personalità cittadine che hanno il privilegio di avere a portata di mano rubriche telefoniche da far impallidire i potenti e che sono in grado di mettersi in contatto con mondi e realtà apparentemente irraggiungibili. Bassanesi di cui vale veramente la pena raccontare la storia.
Suor Donatella Lessio è una religiosa francescana elisabettina. Originaria di Fellette di Romano, ma nata a Bassano, fa parte di una congregazione legata a doppio filo alla nostra città. Quella fondata da Elisabetta Vendramini, attiva soprattutto nel settore dell’educazione dei bambini. La storia di Suor Donatella è “comune” a quella di tanti missionari: profilo basso, azioni concrete dove c’è bisogno e una profondità di pensiero che spesso crea un senso di disorientamento in chi è abituato a giudicare le cose del mondo dal divano del salotto. Abbiamo conosciuto la sua storia quasi per caso, vedendo su Youtube un’intervista concessa a Soul, il programma della giornalista Monica Mondo in onda su Tv2000.
Suor Donatella, è stata fino al 2016 in missione al Caritas Baby Hospital di Betlemme. Come è finita da Bassano alla Terrasanta?
«Nel 2004 la mia congregazione ha deciso di destinarmi a Betlemme, ho fatto semplicemente quello che mi hanno chiesto. Avevo comunque nel cuore e nella mente il desiderio di portare il mio servizio in terra di missione. Sono una infermiera e ho superato anche un corso al Policlinico Gemelli di Roma per diventare dirigente dell’assistenza infermieristica. La mia congregazione ha missioni in Kenya, Sudan, Egitto, Equador e Argentina e fino al 2020 anche in Terrasanta».
Il Caritas Baby è un ospedale pediatrico inserito in un contesto di tensioni e scontri quasi permanenti. Qual è stato il momento più emozionante dal punto di vista spirituale a Betlemme?
«Tanti momenti mi hanno fatto riflettere e mi hanno cambiata, tanto che mi piacerebbe poter fermarmi e mettere per iscritto le sensazioni che ho provato. Uno in particolare però ha cambiato il mio modo di vedere le relazioni con Betlemme e con i musulmani».
Ce lo racconta?
«All’interno dell’ospedale c’è una piccola cappella dove alla domenica viene recitata la Messa per i cattolici e gli ortodossi. Era anche il mio luogo di preghiera. Una mattina ero sola ed assorta in preghiera, quando all’improvviso sento piangere alle mie spalle. Mi giro ed intravedo una mamma musulmana che conoscevo. Piangeva perché il marito, si confidò, voleva abbandonarla visto che non era riuscita a dargli figli “sani”. Erano già morti tre bambini per una malattia genetica rara e anche il più piccolo era malato in ospedale».
Perché era in Chiesa?
«Chiedeva un aiuto a Maria, nella cappella c’è una bellissima statua della Vergine in legno d’ulivo. Tante donne musulmane pregano la Madonna, madre del Profeta. Le dissi: preghiamo insieme Maria, la madre di Dio, per trovare un po’ di luce. La mamma chiedeva alla Madonna qualcosa di concreto: poter avere un figlio sano. Dopo alcuni mesi ero di nuovo in preghiera nella cappellina e si ripete la stessa scena. Sister mi dice: “Sono incinta, piango perché ho tanta paura…”. Pregammo ancora insieme la Madonna e io dentro di me dicevo: fa che non sia malato…».
Come è andata a finire?
«Dopo Natale, mentre ero in reparto, vidi la mamma al Pronto soccorso con un fagottino in mano. Ero letteralmente pietrificata pensando a qualche brutta notizia. Si avvicina e mi mostra, piangendo, Alà, nata proprio il 25 dicembre. Una bambina sana e bellissima. Sister mi disse: “E’ un miracolo, la bambina è sana, ho ricucito il rapporto con mio marito e tra lui e l’altro figlio malato”. Ho realizzato quanta forza possono avere due donne “disperate” nella fede. E’ stato un momento dove la mia fede si è più radicata e dove ho capito che non dovevano esistere barriere tra le diverse religioni».
Immagino che abbia vissuto anche in prima persona le tragedie che segnano la coesistenza di israeliani e palestinesi?
«Il Caritas Baby Hospital si trova vicinissimo al check point numero 300 che blocca il transito dei palestinesi da Betlemme a Gerusalemme. L’ospedale si occupa solo di cure mediche dei bambini e non di interventi chirurgici, non ci sono infatti sale operatorie. Per gli interventi, specie quelli di alta chirurgia, i bambini che arrivavano al Caritas Baby dovevano essere trasferiti negli ospedali israeliani. Per attraversare il muro avevano bisogno di permessi particolari, che non sempre arrivavano o giungevano in tempo utile. Ho visto con i miei occhi bambini che non ce l’hanno fatta, perché i loro corpicini non sempre resistevano all’attesa. Quante ore abbiamo passato con l’orologio in mano e con l’angoscia aspettando i permessi che non arrivavano. Perché? Perché un muro può creare tanto dolore?».
La Terrasanta è il centro del mondo di cristiani, arabi ed ebrei. Qual è il ricordo che porta nel cuore da Betlemme?
«La visita di Papa Benedetto XVI il 13 maggio del 2009, una testimonianza per noi importantissima. Il Papa ha parlato dell’ospedale come di un’oasi di pace in grado di rompere i muri “mentali” e spirituali tra cristiani, ebrei e mussulmani. Quella visita è stata una spinta per il lavoro del personale ospedaliero e per alleviare la sofferenza dei bambini ricoverati e delle mamme. Papa Francesco, il papa di “Fratelli Tutti”, se avesse visitato il Caritas Baby Hospital quando è venuto a Betlemme, avrebbe detto la stessa cosa. Papa Francesco non è venuto da noi ma, poco tempo dopo, siamo stati noi ad andarlo a trovare a Roma, l’11 febbraio del 2016. Ci aveva invitato per ritirare un regalo che tramite l’Elemosineria di Stato, ha voluto fare ai bambini dell’ospedale: un respiratore artificiale per la terapia intensiva neonatale».
Facendo un passo indietro: ci racconta, partendo da Bassano, il suo percorso nella congregazione delle suore francescane elisabettine?
«La prima professione nel 1984, mi è stato chiesto poi di continuare gli studi infermieristici a Pordenone, dove ho fatto l’infermiera per tre anni. Poi sono andata a Roma per la specializzazione e ancora a Pordenone come insegnante nella scuola per infermieri “Don Luigi Maran”. Successivamente per prepararmi alla missione sono andata in Inghilterra per imparare l’inglese».
Prima di Betlemme è stata in altri luoghi di missione?
«Prima di partire per la missione, ho prestato servizio a Padova a Casa Santa Chiara, una casa alloggio per malati terminali di Aids, quando all’epoca era una malattia molto diffusa, soprattutto tra i giovani. Un’esperienza fortissima, segnata dal contatto quotidiano con una umanità fragile, stigmatizzata dalla società, ma ricchissima di amore. Due grandi insegnamenti: non temere la morte e non sentirsi mai nella condizione di giudicare le persone dall’esterno. Il contatto diretto con la morte ti porta a conoscerla ed accoglierla in modo pacifico».
Dopo Betlemme è ritornata in Italia.
«Sì, a Reggio Calabria per seguire un progetto per i profughi e i rifugiati dall’Africa, che si è interrotto dopo un anno e mezzo. Nel 2018 il Capitolo provinciale del mio ordine mi ha eletta Segretaria e Consigliera Provinciale. Sono anche segretaria diocesana dell’Usmi, unione superiore maggiori italiani, di Padova. Nel cuore sogno di poter tornare nelle “periferie” come dice Papa Francesco, ho capito di essere portata a scelte radicali e a vivere con l’umanità più povera e ferita. Ma ho fatto il voto di obbedienza e quindi, quando finirà il mio attuale servizio, sarò a disposizione anche per i bisogni reali della mia famiglia elisabettina».
In quale “periferia” vorrebbe portare la sua opera di missione?
«Premesso che anche l’Italia è terra di missione, ho il desiderio di andare in America Latina. Mia mamma è nata a Ygarapawa, una cittadina di San Paolo del Brasile. E’ nata in Sud America mentre i suoi genitori erano in visita ai parenti emigranti, per cui quella parte di mondo la sento un pochino anche “casa mia”».
Cosa porta nel cuore di Bassano?
«Vengo a Bassano due-tre volte all’anno, a trovare i parenti e le Suore del Vendramini. Bassano è la “casa” del mio ordine, è sempre un ritorno alle nostre origini spirituali. È una città viva, vivibile, pacifica. Il mercato del giovedì mi porta indietro ai tempi della gioventù quando ci andavo sempre con la mia mamma. E poi amo le montagne e quando vedo i monti del Grappa e dell’Altipiano mi sento una sensazione di pace e una carica “ecologica” fortissima».