Dall’isolamento alla libertà creativa: l’Arte di Wadei Khaled per preservare l’identità palestinese
A nove anni, Wadei Khaled vive un’esperienza che cambierà per sempre il corso della sua vita. Ricoverato in isolamento al Caritas Baby Hospital di Betlemme per una meningite, scopre la sua passione per l’arte. Oggi, le sue opere sono esposte in rinomate gallerie della Palestina, raccontando l’identità e la memoria collettiva del popolo palestinese.
Intervista a cura di Shireen Khamis
Il suo percorso artistico è strettamente legato al Caritas Baby Hospital. Ce lo vuole descrivere brevemente?
A quei tempi, quando, per quaranta giorni, ero ricoverato in isolamento per una meningite, non avevo certo le idee chiare su quello che avrei voluto fare. Ma proprio in quell’occasione ho scoperto la mia vena artistica.
Ce lo spieghi meglio.
Ero piuttosto solo, perché per il pericolo di contagio i contatti erano ridotti al minimo. Mio padre mi portò colori, pennelli e un album da colorare. Ma ciò che mi colpì davvero fu l’attenzione di un’infermiera speciale: ogni volta che poteva, si sedeva accanto a me e insieme coloravamo. Non mi sono più staccato dai colori. Questa signora resta per me un angelo.
E poi come è andata avanti la sua vita?
La strada non è stata tutta dritta e priva di ostacoli. Sono cresciuto in una famiglia di profughi ad al-Arroub, a sud di Betlemme. Ero un bambino timido, spesso mi nascondevo in una vecchia cisterna per l’acqua, dove dipingevo. Era un rifugio, in un certo senso simile all’isolamento che avevo vissuto al Caritas Baby Hospital.
Ma le stanze dell’ospedale sono luminose e allegre!
Oggi certamente. Per questo porto i miei figli all’ospedale pediatrico di Betlemme, anche se abitiamo a Ramallah. Ma in passato la realtà era diversa. Un’altra esperienza istruttiva che definirei ‘tipicamente palestinese’ mi ha segnato.
Quale?
Da adolescente sono finito più volte nelle prigioni israeliane, come molti altri giovani della mia età. La Croce Rossa internazionale mi portava vestiti, che ho usato come tela su cui dipingere. Utilizzavo una mistura di olio d’oliva e kohol (trucco tradizionale, ndr.) per creare immagini. Dipingevo moltissimo ed ero davvero bravo. Poi ho avuto l’opportunità di studiare all’Accademia di Belle Arti dell’università Al-Quds di Gerusalemme.
Come definirebbe oggi il suo stile?
Per me l’arte è un potente strumento con cui illustrare l’identità palestinese e la memoria collettiva del nostro popolo. La famiglia è fondamentale nella nostra cultura, e cerco di esprimere questa coesione nei miei lavori. Spesso utilizzo simboli del nostro Paese e delle nostre religioni. Ad esempio, nel biglietto natalizio che ho realizzato per il Caritas Baby Hospital, ho unito l’immagine della Sacra Famiglia con il simbolo della kefiah (copricapo tradizionale, ndr.).
La guerra in corso quanto condiziona l’arte in Palestina?
Siamo tenuti a documentare quello che sta succedendo. Dall’inizio della guerra a Gaza, molti temono una nuova cacciata, una Nakba 2.0. Ma gli artisti devono anche infondere speranza: la voce della giustizia è più forte delle bombe. Questo vale anche per l’arte figurativa e descrive il compito che sono chiamato a svolgere in questo momento.
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Anche in questo periodo così drammatico per la Palestina
grazie a voi al Caritas Baby Hospital tutti i bambini ricevono cure e amore.
Li accogliamo tutti, senza badare alla loro religione, etnia ed estrazione sociale.
Siete voi che permettete loro di crescere sani, sereni e protetti. Grazie!